Il cibo non è solo nutrimento. Per molte persone, è una fonte di conforto, un modo per gestire le emozioni, un obiettivo da raggiungere o un nemico da combattere. Quando questa relazione si trasforma in una lotta quotidiana, in un ciclo incontrollabile di assunzione e rimorso, in ossessioni per le etichette o in paura di certi alimenti, qualcosa si rompe. Non è una questione di forza di volontà. È una patologia.
Quando il cibo diventa un bisogno, non un piacere
La dipendenza da cibo non è un’abitudine sbagliata. È un disturbo neurobiologico. Studi dell’Università di Yale hanno dimostrato che alcuni cibi - ricchi di zuccheri raffinati, grassi saturi e additivi - attivano lo stesso circuito del cervello coinvolto nelle dipendenze da alcol o cocaina. È il sistema della ricompensa: quando mangi quegli alimenti, il cervello rilascia dopamina, e ti spinge a ripetere il comportamento. Non perché hai fame. Perché il cervello ti dice che ne hai bisogno.Non è raro sentirsi in balia di un’abbuffata: 2000, 3000 calorie in meno di un’ora, senza quasi rendersene conto. Poi arriva la colpa. La vergogna. E spesso, per compensare, si ricorre al vomito, ai lassativi o a ore di esercizio fisico estenuante. Questo è il quadro della bulimia nervosa. Ma c’è anche chi non compensa. Chi mangia in modo compulsivo e basta. È il disturbo da alimentazione incontrollata (binge eating), che colpisce il 2,5% degli adulti in Italia e porta spesso all’obesità grave. Il rischio di sviluppare diabete di tipo 2 aumenta del 60%. Quello di malattie cardiache del 45%.
Non è solo mangiare troppo: l’ortoressia, la dipendenza dalla “purezza”
Mentre la bulimia e il binge eating riguardano la quantità, l’ortoressia riguarda la qualità. Non è una dieta sana. È un’ossessione. Chi ne soffre passa ore a leggere etichette, a pianificare i pasti con precisione chirurgica, a evitare cibi “inquinati” da conservanti, zuccheri o latticini. Non mangia per piacere. Mangia per sentirsi “puro”. Per sentirsi migliore.Secondo studi dell’Università di Milano-Bicocca, l’ortoressia è spesso legata a personalità perfezioniste, con livelli di ansia superiori a 75 su una scala di 100. Una persona con ortoressia può rifiutare un invito a cena perché non sa cosa c’è nel piatto. Può sentirsi “sporca” dopo aver mangiato un dolce. Può sacrificare amicizie, viaggi, vacanze per mantenere il suo regime. Eppure, non è magra. Non è sempre sottopeso. Il problema non è il peso. È il controllo. È la paura di perdere il controllo sul cibo.
La cibofobia: quando un cibo diventa un nemico
Non tutti hanno fame nervosa o ossessioni per il cibo. Alcuni hanno paura. La cibofobia è una paura irrazionale di certi alimenti, spesso nata dopo un’esperienza traumatica: un’indigestione, un’allergia non diagnosticata, un episodio di soffocamento. Non è un’idea. È un’angoscia reale. Chi ne soffre evita frutta, verdura, carne, latte - non perché non li ama, ma perché li teme. Il corpo reagisce con nausea, palpitazioni, sudorazione. Il cervello associa quel cibo al pericolo. E non lo lascia più andare.
Perché succede? Geni, ambiente e emozioni
Non è colpa tua. Non è colpa dei tuoi genitori. È un intreccio complesso. La genetica gioca un ruolo importante: fino al 60% del rischio di sviluppare un disturbo alimentare è ereditario. Ma i geni non sono una sentenza. Sono interruttori. E l’ambiente li accende o li spegne.Un’infanzia con carenze affettive, pressioni per essere perfetti, critiche sul corpo, o un’educazione alimentare rigida - “mangia tutto, altrimenti non ti voglio bene” - possono attivare quei geni. L’epigenetica lo ha dimostrato. Il cervello di chi ha subito traumi emotivi impara a usare il cibo come anestetico. Il cibo diventa l’unica cosa su cui si ha controllo. E allora si mangia. O si rifiuta. O si ossessiona. Per sentire qualcosa. O per non sentire niente.
La fame nervosa - l’emotional eating - è il collante. Quando sei triste, ansioso, solo, il cibo ti dà un sollievo immediato. Non è un vizio. È un meccanismo di sopravvivenza. Ma diventa patologico quando diventa l’unico modo per gestire le emozioni.
Diagnosi e trattamento: non sei solo
Non esiste un test del sangue che dica “hai un disturbo alimentare”. La diagnosi è un percorso. Serve un medico, uno psicologo, un nutrizionista. Si fanno esami del sangue, ECG, densitometria ossea. Si usano scale come l’EAT-26 o la YFAS - quella di Yale - per misurare la gravità della dipendenza.Il trattamento più efficace è la terapia cognitivo-comportamentale (CBT). Si lavora su pensieri distorti: “Se mangio questo, ingrasso subito”. “Se non mangio bene, sono un fallimento”. Si impara a riconoscere i trigger: stress, solitudine, notti insonni. Si costruisce una nuova relazione con il cibo. Non è un percorso breve. Richiede 40-60 sessioni, in media 18-24 mesi. E costa tra i 4.500 e i 7.000 euro in privato. Le strutture pubbliche sono gratuite, ma i tempi di attesa sono lunghi: in media 60-90 giorni.
Ma c’è speranza. Un caso documentato dal Centro Lilac di Milano riguarda una donna di 28 anni con ortoressia: dopo 18 mesi di terapia, il tempo dedicato alla pianificazione del cibo è passato da 5 ore al giorno a 30 minuti. Il punteggio al test ORTO-15 è sceso da 42 a 22 - sotto la soglia diagnostica. Non è un miracolo. È un risultato di lavoro costante.
La realtà italiana: un sistema che non riesce a stare al passo
In Italia, 3,5 milioni di persone hanno un disturbo alimentare. Il 6% della popolazione. E il numero è cresciuto del 35% dopo la pandemia. L’età media di insorgenza è sempre più bassa: 16 anni per l’anoressia, 25 per il binge eating. Eppure, solo il 20% delle strutture pubbliche offre percorsi completi. Il 65% dei pazienti abbandona il trattamento perché non riesce a mantenere gli appuntamenti, perché è troppo lontano, perché non ha soldi, perché si sente giudicato.Le nuove tecnologie stanno cambiando le cose. L’Istituto Auxologico ha lanciato un programma di telemedicina che ha ridotto i tempi di attesa del 40% nelle zone rurali. A Milano, l’Ospedale San Raffaele usa la realtà virtuale per esporre i pazienti a situazioni che scatenano l’ansia - un ristorante, un buffet, una foto sullo specchio - in modo controllato. Il risultato? Un miglioramento del 35% nell’efficacia della terapia.
Cosa puoi fare se ti riconosci in questo
Se ti riconosci in uno di questi quadri - se il cibo ti controlla, se lo temi, se lo usi per sopprimere le emozioni - non aspettare. Non pensare di poterlo risolvere da solo. Non è un problema di forza di volontà. È una malattia. E si cura.Parla con qualcuno. Un medico di base, uno psicologo, un’associazione come AIDAP. Non devi avere un peso estremo per avere bisogno di aiuto. Non devi essere magra per essere malata. Non devi essere un’adolescente. Gli uomini, i trentenni, i quarantenni - tutti possono soffrire. E tutti meritano aiuto.
Il primo passo non è cambiare dieta. È cambiare rapporto. Con il cibo. Con te stesso. Con il tuo corpo. E con il mondo che ti circonda. Non è facile. Ma non sei solo.
La dipendenza da cibo esiste davvero o è solo una scusa per mangiare troppo?
Sì, esiste. È riconosciuta dall’OMS e dalla comunità scientifica internazionale. La Yale Food Addiction Scale, usata in oltre 150 studi, misura i sintomi come perdita di controllo, tolleranza, astinenza e continuazione del comportamento nonostante le conseguenze negative. Non è un’abitudine. È un disturbo neurobiologico con basi cerebrali simili a quelle della dipendenza da alcol o droghe.
L’ortoressia è solo una dieta sana spinta all’estremo?
No. Una dieta sana è flessibile, equilibrata e non genera ansia. L’ortoressia è un disturbo mentale: chi ne soffre vive in costante paura di mangiare “sbagliato”, sacrifica relazioni e attività per il cibo, e prova senso di colpa o vergogna se devia anche di poco dal suo regime. Non è salute. È ossessione.
Posso guarire da un disturbo alimentare da solo?
Raramente. I disturbi alimentari coinvolgono aspetti biologici, psicologici e sociali. Cambiare abitudini alimentari da soli non risolve le cause profonde: traumi, ansia, bassa autostima, pensieri distorti. La terapia cognitivo-comportamentale, il supporto nutrizionale e il follow-up medico sono fondamentali. La guarigione richiede un team, non un’impresa individuale.
I disturbi alimentari colpiscono solo le donne?
No. Anche se le donne sono più numerose, negli ultimi anni i casi tra uomini sono aumentati del 28% dal 2019. Gli uomini spesso nascondono il problema per vergogna o perché si pensa che sia “una malattia da ragazze”. Il binge eating e l’ortoressia sono molto comuni tra gli uomini, soprattutto in chi pratica sport o è ossessionato dall’immagine corporea.
Quanto costa un percorso di cura in Italia?
In privato, un percorso completo - medico, psicologo, nutrizionista - costa tra 4.500 e 7.000 euro. In pubblico, è gratuito, ma i tempi di attesa sono lunghi: 60-90 giorni in media. Alcune regioni offrono percorsi accelerati. Associazioni come AIDAP possono aiutare a trovare strutture vicine e sostenere la richiesta di accesso ai servizi.
Cosa posso fare per aiutare qualcuno che ha un disturbo alimentare?
Non commentare il peso, non dire “mangia di più” o “non sei così magra”. Non offrire soluzioni semplici. Ascolta senza giudicare. Dì: “Vedo che stai soffrendo. Non sei solo. Posso aiutarti a trovare qualcuno che ti possa aiutare?”. Spesso, il primo passo è semplicemente sentirsi visti, senza paura di essere giudicati.